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SCHEGGE di Antonio Carlo Ponti | L’indimenticato Luciano Moretti. Poeta postumo

Che noia essere un poeta che potrebbe perpetuare nel ridicolo e nell’errore, e sovente nell’orrore, di scrivere versi. Luciano a cinque anni dalla scomparsa, lasciando vuoti e più poveri i nostri cuori e i nostri giorni, ci colpisce con un uppercut che stordisce e stende sul ring della memoria. Grazie alla sua Guglielmina che, rinvenuto in un cassetto un dattiloscritto su Olivetti 22 di 24 poesie bene allineate e coperte, le ha, tramite l’amicizia fraterna di Gianpiero Bocci, autore di una sorprendete lirica prefazione, le ha date alle stampe in un’edizione impreziosita da belle foto di Adriano Scognamillo e legata a mano su carte colorate come le cravatte proverbiali che questo eccellente giornalista indossava, su camicie sgargianti.

Arbitro di eleganza, e ora poeta a tutto tondo. Una mattina del 1983 entrò nella mia stanza accompagnato da Mario Roych e m’intimò: tu devi fare il direttore del nascente “Corriere dell’Umbria“. Direttore irresponsabile pensai. Il libro, che in copertina a mo’ di Franco Maria Ricci riporta incollata la foto di cravatte policrome, s’intitola semplicemente, umilmente “Poesie“, e dentro ci sono poesie vere e poesia autentica: l’anima l’ironia la tenerezza la satira la rabbia i silenzi l’amore il cuore di un poeta. Non un dilettante, di uno che va a capo, no, versi solidi, abili, in rima, in ritmo, avvolti in quella musica auspicata da Paul Verlaine (la musique avant toute chose).

Non è un libro compatto, studiato o organizzato, è un fiume, un flusso di coscienza, versi in libera uscita, ma legati alla parola che è la materia prima in forme imprigionate da assonanze e da rime, in una ricerca lessicale non ricercata o arzigogolata in metafore eroiche o in metonimie ardite. Il libriccino ma grande e di peso è un libro mastro, di quando da giovane provvisorio contabile metteva in canto l’aridità e il tedio del dare e dell’avere, prima di approdare al giornalismo e alla politica, da par suo, da protagonista in una Perugia non natale ma cui lui come il fratello Italo dettero lustro di provetti professionisti della comunicazione e della missione d’informare e un po’ formare i lettori, la gente. Verrebbe voglia, davanti a queste paginette della castità del primissimo Ungaretti, più bianco della carta che nero dell’inchiostro, di contare sillabe consonanti vocali spazi interlinee maiuscole, tanto i versi sono decisi e decisivi, senza pentimenti, oracolari e profondi, un suo vissuto che, si presume fino ai cinquanta, ha confessato a sé stesso in questo quaderno fortunosamente ritrovato come il tempo proustiano.

«la tua vita io vorrei raccontare / il tuo passato tirando a indovinare / perdonami però sono dolente / io questa sera non so ascriver niente». «ti troverò / quando rinascerai / senza mai / esserti negata / (a me)». «Ho appena sentito di in altro / tramonto / talvolta sono così triste / ma così triste. / Mi lascio lasciare / aspettando la dolcezza / e sto qui seduto / nel disordine. / A rendermi prezioso l’istante / pure il tempo trascorrerà». «quanta fatica nella mia vita /ricominciare sempre daccapo /tutto da rifare da che / ho smesso di chiedere e sperare / altra felicità che di parole. / all’alba dei miei tempi / voglio ritornare da Dio / rincorrere il suo canto /senza più dirti di me / d’amore sena più parlarti… / amore mio!». Ma questo è anche un canzoniere d’amore. Un libro religioso. Resta il mistero, per fortuna, che non sapremo mai perché non le abbia pubblicate in vita. Quale formidabile vita!


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